lunedì 28 aprile 2014

Paura dell'acqua? Cosa fare per superarla


di Sahalima Giovannini

Sono moltissimi i bambini che hanno paura dell’acqua: e sicuramente molti dei genitori che stanno leggendo si ricorderanno di quando, da piccoli, non erano entusiasti di entrare in acqua al mare o in piscina e nemmeno di sentire l’acqua scorrere sul viso durante lo shampoo o la doccia. Succede perché l’acqua è, per molti bambini, un ambiente poco rassicurante, nella quale la capacità di camminare e il movimento non contano più. Le azzurre profondità di mare e piscina poi, che noi adulti troviamo irresistibili, per loro non solo è paura di non riuscire a respirare ma la fantasia vola immaginando mostri pericolosi nascosti tra i guizzi dell’acqua. Tutto questo è strano, perché ciascuno di noi, nei nove mesi della gestazione, è stato totalmente immerso nel liquido amniotico, ovvero… nell’acqua ed è con la nascita che si siamo adattati all’aria.

L’acqua, non facciamogli perdere la naturale confidenza
È difficile che nei primi mesi di vita si riesca a mantenere il rapporto speciale con l’acqua a meno che tutte le sere non si faccia il bagnetto in modalità rassicurante. Infatti, il più delle volte siamo noi genitori ad infondere la paura, proprio per paura che immergendo il piccolo completamente nell’acqua possa sfuggirci di testolina ed andare sott’acqua con risvolti pericolosi. Nulla di tutto questo dovrebbe spaventarci: i neonati se posizionati con la testolina in acqua chiudono immediatamente la bocca e bloccano la respirazione e nulla di irreparabile può accadere! Il momento del bagnetto serale deve essere rassicurante: ambiente caldo, calmo e soprattutto sereno, in questo modo l’acqua può essere lasciata scorrere delicatamente sul volto del piccolo durante le operazioni di pulizia, insomma favorendo una naturale continuità nella confidenza con l’elemento liquido. Si dovrebbe, poi, iscrivere i bimbi già dopo il quinto mese nei corsi di acquaticità nelle piscine specializzate i bambini a sei mesi hanno il riflesso del nuoto naturale e se, senza nessun supporto, chiudono la bocca e si lasciano galleggiare. Di fatto, questo succede raramente. Spesso di teme che l’acqua delle piscine sia troppo fredda, oppure non abbastanza pulita per un bimbo piccolissimo, o ancora che prenda qualche malattia. Anche durante il bagnetto a casa spesso il visino viene pulito in fretta, badando che l’acqua non entri negli occhi o nel naso, nella convinzione che causi fastidio al piccolo. Il bambino, invece, nei primi mesi non si accorge nemmeno di tutte queste precauzioni e quando, più grandicello, inizia ad avere una maggiore consapevolezza, l’acqua è ormai un elemento con il quale non ha più confidenza e che rappresenta una possibile fonte di pericoli. Ecco perché non vuole entrare nel mare o in piscina e ha perfino paura dell’acqua sul viso quando gli vengono lavati il faccino o i capelli.
Cosa fare se il bambino ha paura dell’acqua?
Mai obbligarli ad avere il contatto con l’acqua se ne hanno paura. Va detto che questo irrazionale timore è destinato a scomparire spontaneamente, con il passare del tempo ma, nell’immediato cosa fare, se a quattro o cinque anni, non vogliono saperne di entrare in mare e con i quali anche il lavaggio dei capelli diventa un piccolo dramma casalingo? Può essere utile aiutarli a superare la paura proponendo di lavarsi da soli il viso, anche con poche gocce d’acqua: il bambino si sentirà grande e responsabilizzato, ma soprattutto capirà che l’acqua è un elemento che può gestire autonomamente e di cui non ha senso avere paura. E’ ovvio che il piccolo non riuscirà a ben pulire le mani o il viso a quel punto dopo essersi asciugato può essere utile passargli delle salviettine umide sulle mani con la scusa di profumarlo visto che non ha usato abbastanza acqua. Evitiamo la doccia, piuttosto lasciate un recipiente con dell’acqua calda in terra, chiedendo al bambino di immergere i suoi piedini se lo desidera per poi passare le salviettine umide anche su piedi e corpo ma va sempre preparato il recipiente dell’acqua anche se non lo userà. Sarà il piccolo che dovrà trovare il coraggio di immergere i piedi o le mani. La prima volta che vedrete vostro figlio a questo primo traguardo, deve essere premiato e lodato per il suo coraggio, il premio dovrà essere commisurato a quanto si bagnerà: gratificazioni e coccole a volontà con l’obiettivo di fare una bella festa quando sarà in grado di bagnarsi completamente. Per lavare i capelli si può permettere al bambino di tenere su viso e occhi un piccolo asciugamano morbido e lavare la testa con il capo reclinato all’indietro, proprio come dal parrucchiere. Inoltre, quando si compie questa operazione il piccolo va confortato e non sgridato. Per quanto riguarda, infine, il bagno in mare o in piscina, vanno evitate le umiliazioni e i confronti su quanto siano bravi gli altri bambini. Servirebbe solo a renderlo più insicuro. Il corso di nuoto può essere posticipato di qualche mese oppure si può scegliere una piscinetta più bassa e a misura di bambino. Per quanto riguarda il mare, è bene lasciare che sia il bambino ad avvicinarvisi a poco a poco, prendendo confidenza per imitare gli altri e costruendo un rapporto tutto personale con le onde.

mercoledì 23 aprile 2014

Il cioccolato fa bene ai bambini?



a cura del Dott. Guido Vertua, pediatra
Esistono un mucchio di luoghi comuni da sfatare sul cioccolato. Non è vero ad esempio che faccia venire i brufoli o che sia molto allergizzante. È ormai assodato che non esiste alcuna associazione con l’insorgenza dell’acne: un recente rapporto della American Medical Association conferma che l’acne nell’adolescenza è per lo più provocata da fattori ormonali e non dal consumo, a volte eccessivo, del cioccolato, la cui assunzione perciò non influisce dal punto di vista clinico sull'evoluzione di questo antiestetico disturbo della pelle.
Se poi prendiamo in considerazione una serie di alimenti in grado di scatenare reazioni allergiche vediamo che, in ordine di frequenza, il cioccolato si situa alla fine di una scala decrescente, dopo il pesce, le uova, i crostacei, il latte vaccino, il sedano, le fragole, e molti altri cibi. Di conseguenza è stato calcolato che meno del 2% dei soggetti che soffrono già di allergie (asma, riniti, orticaria) possono essere suscettibili a reazioni allergiche dopo assunzione di cioccolato.
Non è vero che faccia male ai denti, anzi è stato dimostrato che la polvere di cacao possiede un potere anticariogeno dovuto alla presenza di tre tipi di sostanze: i tannini (che inibiscono lo sviluppo di batteri), il fluoro (presente nella concentrazione di 0,05 mg/100 g) e i fosfati (che agiscono contro gli acidi formati dal metabolismo degli zuccheri)
È vero invece che sia uno stimolante ed un antidepressivo poiché contiene le endorfine, sostanze che contrastano il dolore e predispongono al piacere, e la teobromina, in grado di migliorare la concentrazione e la prontezza dei riflessi. Inoltre ha il potere di stimolare la produzione di serotonina, una sostanza che agisce a livello cerebrale e che ha la capacità di infondere calma e tranquillità, e di migliorare l'umore.
È falso che sia pesante da digerire: è anzi uno degli alimenti di più rapida digestione poiché alcuni studi hanno dimostrato che i tempi di permanenza di 200 grammi di cacao nello stomaco sono tra i più bassi in assoluto (da una a due ore, in particolare se si tratta di cioccolato al latte). Non è vero che faccia aumentare il colesterolo, anzi non si trova traccia di colesterolo nel cacao e nel cioccolato fondente, mentre 100 grammi di cioccolato al latte ne contengono solo 16 milligrammi. Con una tazza di cioccolata si assimilano all’incirca 8 milligrammi di colesterolo, la stessa quantità contenuta in 100 grammi di yogurt naturale parzialmente scremato.
Esistono vari tipi di cioccolato, che si differenziano a seconda del contenuto di cacao. Il cioccolato infatti non è altro che un mix di zucchero e cacao, a cui possono essere aggiunti burro di cacao, latte, miele, sostanze aromatiche, grassi o frutta secca. A secondo della percentuale minima di cacao contenuta si distinguono cinque tipi:
  • Cioccolato al latte (come minimo 30% di cacao)
  • Cioccolato mi-doux miscela sapientemente dosata di cioccolato al latte e fondente (38%)
  • Cioccolato surfin, un cioccolato dolce con una nota amara abbastanza intensa, dal gusto fine e molto persistente (50%)
  • Cioccolato extra-bitter, che risulta poco dolce con una caratteristica amara molto intensa (60%)
  • Cioccolato amarissimo (70%).
  • Esiste inoltre il cioccolato bianco, che in realtà non è un vero cioccolato in quanto non contiene cacao, ma solo burro di cacao, con una concentrazione minima del 30%.
È noto che il cioccolato è un alimento particolarmente ricco di calorie e, poiché viene spesso mangiato al di fuori dei pasti canonici, rischia di indurre un eccessivo apporto energetico. Questi sono i valori calorici ogni 100 grammi (che è il contenuto di una confezione standard): cioccolato fondente (530 kcal), cioccolato al latte (540 kcal), cioccolato al latte con nocciole (535 kcal).
Va ricordato tuttavia che una porzione da 80 grammi di spaghetti al pomodoro e basilico fornisce circa 422 calorie e una fetta media di crostata con marmellata circa 550. In conclusione il cioccolato è un alimento che non provoca problemi di digestione o appesantimento e può tranquillamente essere inserito nella dieta dei bambini, senza esagerare, soprattutto se il bambino non ha ancora compiuto i 2/3 anni di vita.
In ogni caso è sempre preferibile scegliere cioccolato di buona qualità. Quello fondente è considerato migliore in quanto contiene una più alta percentuale di cacao. Ma alcune qualità, come un maggiore contenuto di vitamina A e di calcio, si trovano solo nelle varietà al latte, proprio quella preferita dai bambini.

martedì 15 aprile 2014

Insegniamo ai bambini cosa fare e a chi rivolgersi se dovessero perdersi


di Lina Rossi
È la paura più grande di ogni genitore: girarsi e non trovare più il bambino. E in estate, in vacanza, è una realtà che può riguardare anche le mamme e i papà più attenti. Il bambino è lì accanto a noi, ma basta un attimo di distrazione per perderlo di vista: la disperazione sale in fretta, anche se quasi sempre si conclude con un sospiro di sollievo nel ritrovare il bambino poco distante. Ma non sempre finisce così. Qualche volta, soprattutto se ci si trova a passeggio per la città o in un parco, bambino e genitori possono prendere direzioni opposte e quindi non ritrovarsi. Ecco cosa fare perché questo non succeda o come comportarsi se il bambino si perde.
Insegniamogli la responsabilità
Il bambino, fin da piccolo, deve imparare ad avvisare genitori, nonni o baby sitter se ha intenzione di allontanarsi. Su questo punto è importante insistere fin dai primi anni di età. In secondo luogo, gli si deve insegnare a dire il suo nome e il cognome: servirà a farsi ritrovare nel caso si smarrisse sul serio. Bisogna spiegargli che, nel caso in cui dovesse perdersi, si deve rivolgere a una donna, meglio se una mamma con bambini piccoli oppure a una persona che indossi una divisa: agente di polizia o della sicurezza. Se ci si trova in spiaggia, il bambino dovrebbe anche imparare a memorizzare il nome dello stabilimento balneare. Se, invece, ci si trova all’aperto, si possono insegnare dei punti di riferimento: l’aiuola grande in mezzo al parco, lo scivolo blu, il chiosco dei gelato, insomma un punto ben visibile e facile da ricordare per il piccolo anche di pochi anni. Lo si può anche dotare di una fettuccia in tessuto ben legata al polso o messa a mo’ di collanina sul quale scrivere nome, cognome e recapiti telefonici del bambino in caso di smarrimento.
Tanta attenzione da parte dei genitori
Se, ovviamente, il bambino ha la tendenza ad allontanarsi, le attenzioni di mamma e papà vanno moltiplicate per cento. È utile avvisare gli amici, i vicini di ombrellone, il bagnino delle abitudini del bimbo, pregandoli di avvertire se dovessero notare che il piccolo si allontana. Questo non significa che dobbiate abdicare al ruolo di controllo, ma è un modo per essere più sicuri, che non prescinde dalle responsabilità e dall’educazione che va impartita a un figlio, a mano a mano che cresce. Nel caso peggiore, ossia quando ci si rende conto che il bambino si è davvero allontanato, è bene chiedere la collaborazione del bagnino o dei responsabili della struttura di vacanza, facendolo chiamare dall’altoparlante e fornendo il più possibile informazioni per ritrovarlo. Bastano cinque o sei minuti per permettere al bambino di allontanarsi anche di cinquecento metri, ma non è detto che il bambino corra per forza un rischio: non è detto che incontri per forza un malintenzionato. Molto probabilmente incapperà piangendo in una mamma o in un papà che lo prenderanno per mano riportandolo al sicuro tra le nostre braccia.

giovedì 10 aprile 2014

Allergie di primavera: sintomi, rimedi e prevenzione


Con i primi pollini, portati dalla bella stagione, le allergie primaverili dei bambini cominciano a farsi sentire, eccome. Secondo un’indagine dell’Anifa (Associazione Nazionale dell’Industria Farmaceutica dell’Automedicazione) la fioritura delle piante rende infatti la primavera la stagione dei raffreddori: gli starnuti colpiscono addirittura l’80% degli italiani e naturalmente i bambini non ne sono esenti. 
Cominciamo dai sintomi più evidenti dell’allergia ai pollini nei bambini: prurito, rossore agli occhi e starnuti sono il segnale che l’allergia ha colpito! Che fare a questo punto? Potrebbe essere un banale raffreddore. Oppure no. Osservate bene: in caso di allergia gli starnuti si presentano in rapida successione, con lacrimazione e prurito al naso; spesso si presenta anche la congiuntivite, l’infiammazione della membrana che riveste la cavità dell’occhio e la parte interna delle palpebre; il naso gocciola, portando i bimbi a soffiarselo spesso e possono comparire mal di testatosse secca eabbassamento della voce.
Allergie Primaverili Bambini
Per riconoscere le allergie primaverili nei bambini fate poi attenzione all’asma: a volte il polline, raggiungendo i bronchi, può sviluppare altre infiammazioni, aggravando la tosse secca e provocando sibili nella respirazione. Ecco, se si presentano alcuni di questi sintomi (o tutti insieme) è probabile che si tratti diallergia ai pollini nei bambini. Il consiglio è comunque quello di rivolgersi sempre al pediatra che saprà fornirvi una diagnosi più attendibile.
Per contrastare le allergie primaverili dei bambini esistono anche molti rimedi naturali che si possono facilmente praticare (sempre sotto consiglio e approvazione del medico). L’omeopatia per esempio garantisce soluzioni diverse contro l’allergia ai pollini nei bambini. In più non presenta alcuni degli effetti collaterali tipici degli antistaminici, come la sonnolenza.
Vi sono poi dei piccoli accorgimenti da adottare per limitare i fastidi provocati dalle allergie primaverili nei bambini. Ad esempio, sarebbe meglio evitare di far uscire i piccoli subito dopo un temporale: è bene sapere che le gocce di pioggia rompono i granuli di polline in frammenti più piccoli che raggiungono facilmente le vie aeree più profonde. I genitori che usano spesso l’auto dovrebbero cercare di viaggiare con i finestrini chiusi, così i sistemi di filtro anti-polline, che ormai si trovano in tutte le auto, possono svolgere il loro lavoro. Inoltre, se si può, è bene evitare di posteggiare l’auto sotto gli alberi e in prossimità di giardini e prati.

lunedì 7 aprile 2014

Baby Zone: pomeriggi a tema in Aurora

Continuano i pomeriggi a tema organizzati dalla Scuola Aurora – Asilo nido e Scuola dell’Infanzia - tutti i giovedì pomeriggio dalle 16.00 alle 18.00. 




Non mancate!!!

venerdì 4 aprile 2014

Il segreto dell’inglese precoce


Ormai fa parte della sensibilità comune la percezione secondo la quale i bambini imparano le lingue molto velocemente. Pochi sono invece coloro che conoscono i motivi per cui questo accade, la stragrande maggioranza pensa che si tratti semplicemente di una maggiore capacità di “imitazione”. 


In realtà, il meccanismo che scatta nei bambini è un po’ differente dall’imitazione. Infatti gli scienziati che studiano i modi in cui il nostro cervello agisce hanno scoperto che un bambino, quando impara una lingua, utilizza un’area del cervello indicata come area del movimento, ossia l’area che presiede a tutti quei movimenti che compiamo senza pensarci. 
Acquisire una lingua in questo modo implica il fatto che la lingua diventi uno strumento che utilizziamo senza pensarci su. 

Ancora secondo gli studi dei neurologi, i bambini fino a 7 anni utilizzano esclusivamente quest’area del cervello, per imparare, mentre dai 18 anni in poi la struttura cerebrale inizia ad apprendere in tutt’altro modo. 
E’ per questo stesso motivo che, se impariamo una lingua da adulti, tendiamo sempre a tradurre dalla nostra lingua d’origine. Se la impariamo da bambini, ci verrà automatico utilizzare quella lingua senza pensare alla nostra lingua madre. 

E’ ancora per questo stesso motivo che è possibile (ed importante) imparare una seconda lingua fin da piccolissimi: diventerà un patrimonio stabile, di cui faremo uso senza neanche accorgercene. 

martedì 1 aprile 2014

Disturbi nel linguaggio: come aiutare i piccoli di «poche parole»

di Daniela Natali

Che buffo quel bambino, ha detto «poto». Ma intendeva »topo». Sarebbe soltanto buffo, e del tutto normale, se il bambino non avesse già quattro anni. E sarebbe simpaticamente curioso anche il bambino che dice: «io contento no», «io mangiare male», oppure: «cosa stanno fanno?», se non avesse già sei anni. In questi casi, ci dicono i logopedisti, siamo in presenza di un «disturbo specifico del linguaggio» . Ne soffre il 3 per cento della popolazione. Niente a che vedere con la balbuzie e niente a che vedere con un quoziente intellettivo al di sotto della norma, o con una psicopatologia, o con un contesto sociale o familiare che non ha favorito lo sviluppo della parola.
 Spiega infatti Tiziana Rossetto, presidente della Federazione logopedisti italiani, l’associazione nata nel 1989 che raccoglie circa 3 mila soci: «I disturbi specifici del linguaggio sono proprio quello che dice il loro nome: in chi ne soffre non c’è patologia neurologica o deficit intellettivo, di percezione o di attenzione, nessun disturbo della sfera comportamentale, nessun danno organico all’apparato fonatorio. L’unica area colpita è quella della parola».

Se si parla di disturbi al plurale vuole dire che ce ne sono di diversi?
«Direi piuttosto che ci sono espressioni differenti dello stesso problema. C’è il bambino che pronuncia male, o non pronuncia del tutto, alcuni suoni che dovrebbero già essere presenti alla sua età, e quindi si «arrangia» con quelli che sa usare, rendendo però incomprensibile quello che dice. C’è il bambino che costruisce in modo alterato le parole, invertendo per esempio le sillabe. C’è chi ha un disturbo della comprensione del linguaggio, il più grave dei tre: è come se le parole faticassero ad «entrare» oltre che a «uscire».
Su questi disturbi bisogna intervenire precocemente, io lavoro con i i bambini già a partire dai 36 mesi. Ma se si è sospettato, e poi diagnosticato, un disturbo anche di comprensione del linguaggio si può intervenire già a due anni».

Ma non si dice sempre che ogni bambino ha i suoi tempi: c’è chi è precoce, o tardivo nel camminare, chi nel parlare...
«Anche se c’è molta variabilità, il linguaggio è un percorso che ha le sue tappe. A 6 - 9 mesi la sua comunicazione è fatta di gesti, vocalizzi, sillabe ripetute, del tipo pa-pa-pa, ta-ta, ma-ma. Tra i 9 e i 12 mesi compaiono sequenze di più sillabe, con consonanti e vocali diverse, simili a parole, accompagnate dal gesto di indicare, per comunicare ciò che si vuole. E via via si arriva allo sviluppo di un vocabolario, attraverso le esperienze condivise nell’ambiente familiare, a 14 - 16 mesi; contemporaneamente il bambino impara a capire il significato delle parole, tanto è vero che agisce in modo adeguato in risposta semplici comandi. Tra i 16 e i 20 mesi c’è il vero boom del linguaggio: il vocabolario, che intorno a quell’età è di circa 50 parole, molto velocemente si arricchisce e compaiono le prime combinazioni».

Scandire così puntualmente le tappe di sviluppo del linguaggio non rischia di suscitare allarmismi eccessivi per eventuali “ritardi”?
«Intendiamoci, queste tappe non sono scolpite nella pietra, ma sono utili indicatori per individuare chi è in difficoltà. Ci sono appunto i parlatori tardivi, bambini che a due, tre anni quasi non spiccicano parole. Ma se dopo qualche mese del primo anno di asilo - che dà una spinta forte alla socializzazione e quindi dovrebbe spronare a parlare - non cambia nulla, allora bisogna intervenire. E non perché noi genitori fatichiamo ad accettare bambini con minori abilità rispetto ai coetanei, ma perché per il bambino non riuscire a esprimersi come vorrebbe è una sofferenza. Una sofferenza che può portare a rinchiudersi in se stessi, rinunciando quasi a comunicare, o che può tradursi in rabbia e quindi in comportamenti oppositivi, provocatori. Senza contare che, se chi ha un disturbo del linguaggio non viene seguito, quando andrà a scuola avrà nel 30-40 per cento dei casi, la probabilità di sviluppare anche un disturbo specifico dell’apprendimento, come la dislessia».

Una volta persuasi dell’urgenza di un intervento, cosa possono fare concretamente i genitori per far superare quelle difficoltà ai loro bambini ?
«Moltissimo. Infatti, quando il problema riguarda bimbi molto piccoli lavoriamo più sui genitori che sui figli. I genitori debbono imparare a diventare “facilitatori” del linguaggio, e noi spieghiamo come farlo».

E come?
«Premetto che ogni bambino segue un percorso diverso, perché test specifici ci consentono di individuare la gravità e la pervasività delle difficoltà, che possono riguardare: la fonologia (per esempio: tatoleto per fazzoletto, sakola per scatola); il lessico (con la semplificazione delle parole, nana per banana, ane per cane); la morfologia (per esempio, li bambini, la luva per l’uva); lasintassi (mettere i verbi all’infinito: io bere acqua, io mangio no), oppure tutte le quattro aree. «Chiarito tutto questo , arrivo ai genitori: noi li aiutiamo a diventare allenatori del bambino. Niente di strano o di complicato: è quello che molti genitori fanno già, ma che va semplicemente fatto con più attenzione e più pazienza. E quindi, attenzione all’ambiente: rumore e luci forti sono da evitare; quando si deve parlare, stare comodi e guardare il bambino negli occhi; rispettare i turni comunicativi; non far fretta al piccolo, non incalzarlo con continue domande; usare anche la mimica e gesti; mai fingere di aver capito quello che in realtà non si è compreso, si deve piuttosto guidare il bambino a riformulare il messaggio. E per finire: non “bamboleggiate”, usate un linguaggio adatto all’età del bambino. E usate i CD che propongono esercizi divertenti per aiutare i bambini imparare a parlare, rimanendo sempre vicini e con loro».

E il logopedista che cosa fa direttamente con il bambino?
«Il logopedista prima di ogni intervento esegue una valutazione e fa un bilancio di tutte le competenze necessarie a sviluppare un profilo comunicativo-linguistico adeguato. Solo dopo si stabilisce un programma riabilitativo con obiettivi di lungo e medio termine da raggiungere attraverso attività ambulatoriali e domiciliari se serve un potenziamento e un rinforzo. Le attività sono adatte all’età, quasi sempre si tratta attività ludiche, giochi di ruolo, con utilizzo di giocattoli, libri, video, registrazioni e drammatizzazioni. Il lavoro può essere individuale o a piccoli gruppi».

In quali tempi ci si può aspettare un miglioramento?
«Il tempo di programma varia dai sei ai 12 mesi, con possibilità di ripetere il trattamento a seconda della gravità».