giovedì 30 gennaio 2014

Gelosia tra fratelli, che fare?


Risponde la dottoressa Francesca Santarelli, esperta di psicologia infantile.
Molto spesso mi trovo in compagnia di mamme che hanno più di un figlio e ognuna racconta la sua esperienza su come è stata vissuta ogni singola gravidanza e l’inserimento di un nuovo bebè all’interno di una famiglia già avviata, quando il primogenito, per mesi o anni, è stato l’unico reginetto della casa, al centro di ogni secondo della nostra giornata e delle nostra attenzioni! E poi arriva lui… il fratellino! A volte è stato chiesto dallo stesso bimbo, altre volte arriva senza preavviso. In ogni caso, è un evento che non può lasciare inalterati gli equilibri dell’intera famiglia e ancora di più, non può non destabilizzare il piccoletto di casa!
Chiunque sia genitore di due o più figli si è trovato ad affrontare situazioni o comportamenti più o meno frequenti e spiacevoli dovuti alla gelosia tra fratelli. 
Il sentimento della gelosia è un sentimento normale che emerge nel bambino alla nascita di un nuovo fratello o sorella. Esprime il timore di perdere l’esclusività dell’amore delle figure amate. E’ come se il bambino ritenesse di poter essere il solo a fornire l’amore necessario ai propri genitori e a sua volta di essere il solo al quale i genitori possano rivolgere il proprio amore e le proprie attenzioni.
L’emergere di questa emozione sebbene sia spesso fonte di tensione e conflitto sia tra i fratelli che di conseguenza tra i figli e genitori, a causa delle manifestazioni più o meno intense che possono essere messe in atto, consente anche di affrontare e superare una fase dello sviluppo del bambino che lo porterà verso un’adeguata maturazione sociale ed emotiva. Infatti imparare a gestire questa emozione fin da piccoli in maniera positiva faciliterà e renderà più serene le future relazioni sociali in età adulta. Il rapporto tra fratelli e sorelle può dunque essere considerato ed utilizzato come una sorta di palestra emotiva attraverso la quale si costruiscono la fiducia reciproca, la tolleranza, l’adattabilità piuttosto che la diffidenza e l’individualismo nel rapporto con gli altri.
Solitamente soffrono maggiormente di gelosia i primogeniti in quanto hanno vissuto per un periodo più o meno lungo l’esclusività del rapporto con i genitori. Il secondo o il terzo figlio hanno dovuto sempre dividere l’amore e le attenzioni dei genitori con gli altri fratelli, ma ciò non significa che non possano sperimentare gelosia nei loro confronti. Anche i figli unici possono provare gelosia nei confronti dei genitori ed è perciò importante che anche in questo caso essi imparino ad individuare e gestire tale sentimento nel figlio.
Ma quali sono i segnali?
Quando il bambino soffre di gelosia può manifestare questo sentimento in diversi modi. In parte dipendono dalle sue caratteristiche di personalità, dal temperamento, dall’età, dalle sue competenze. E’ importante che i genitori colgano questi segnali e li interpretino come espressione del sentire del proprio bambino, senza giudicarlo o punirlo per questo.
Il bambino può manifestare comportamenti regressivi: fare la pipì a letto, sporcarsi, chiedere il ciuccio, parlare con una voce infantile, chiedere maggiori attenzioni ai genitori, lamentarsi spesso, chiedere più coccole.
Può manifestare comportamenti aggressivi: fare dispetti, mettere il broncio, stuzzicare sia fisicamente che verbalmente, lanciare o rompere oggetti o giocattoli, picchiare, morsicare, criticare o rimproverare apertamente i genitori.
Cosa non fare: punire il bambino, specialmente fisicamente. Questo trasmetterebbe al figlio il messaggio che non si deve provare gelosia (quindi non si riconosce e accoglie il suo sentimento) e ciò potrebbe farlo sentire cattivo o sbagliato. Inoltre potrebbe farsi l’idea che il più forte ha la meglio sul più debole e che attraverso l’aggressività si può ottenere ciò che si vuole.
Cosa fare: ascoltare e rassicurare. Cercare di mettersi nei panni del bambino geloso, non mostrandosi sorpresi o impauriti dalla sua gelosia. Capire i bisogni del figlio e dunque anche le sue difficoltà consente ai genitori di mostrarsi più sereni e disponibili nei suoi confronti, pur rimanendo determinati nel porre dei limiti e nel non assecondare le pretese del figlio. Accogliere e comprendere non significa infatti darla vinta, ma aiuta al contrario a rendere anche i rimproveri o le regole, con le loro conseguenti frustrazioni, meno dolorose e più comprensibili per il bambino geloso.
Qualche consiglio pratico…
Lasciare ai bambini la possibilità di risolvere da soli i problemi e i conflitti, a meno che non vengano alle mani rischiando di farsi del male. Questo soprattutto se i bambini non hanno una grossa differenza d’età.
Stabilire delle regole chiare. Se ad esempio i fratelli litigano ma non ci si è accorti chi ha cominciato è bene non schierarsi dalla parte di nessuno ma dire “Non è importante chi ha cominciato, la regola in famiglia è che non ci si picchia”.
Dare a tutti i figli le stesse attenzioni e rivolgere la stessa quantità di lodi. Evitare di fare confronti tra i fratelli ma valorizzare ognuno per le sue doti e qualità individuali. Questo consentirà di aumentare e consolidare l’autostima di ognuno oltre che di ridurre la gelosia.

lunedì 27 gennaio 2014

Perché alcuni bambini non gattonano?


di Gianni Bona 
In base all’epoca di vita un lattante acquisisce una serie di competenze motorie che fanno parte delle tappe del suo normale sviluppo posturale e motorio. Tali tappe di sviluppo motorio messe in relazione con i mesi di vita, ci permettono di capire se lo sviluppo psicomotorio è adeguato.
Mediamente un lattante a tre mesi posto in posizione prona solleva il capo, a 6 mesi raggiunge la posizione seduta autonoma, a 10-11 mesi si tira in piedi da solo, da seduto si mette a quattro zampe, gattona.
Esiste, tuttavia, una certa variabilità interindividuale: la stessa tappa, infatti, può essere raggiunta ad epoche anche molto diverse. È importante non solo valutare il momento in cui è avvenuto il raggiungimento di una certa tappa miliare, ma anche lo studio e la comprensione dei modi in cui una tappa è stata raggiunta (o è stata fallita).
Il gattonamento è una tappa dello sviluppo motorio che un lattante acquisisce intorno ai 10-11 mesi: cammina a quattro zampe, facendo forza sulle mani e sulle ginocchia.
In generale il bimbo comincia a gattonare dopo un certo periodo in cui sta seduto con sicurezza. È consigliabile in questo periodo tenere il bambino il più possibile su un tappeto o una coperta e vestirlo con indumenti che coprano ginocchia e gomiti, come le pratiche tutine elasticizzate che permettono anche grande libertà di movimento. È un momento giocoso che permette al bambino di spostarsi da un lato all’altro di una stanza e di scoprire nuovi luoghi, nuove sensazioni.
Ciò che porta un bambino al gattonamento dipende da molte variabili. Non si tratta solo della maturazione del sistema nervoso centrale, ma è il risultato della cooperazione di componenti fisico-anatomici, neurologici, ambientali, motivazionali.
Sarà inoltre poco motivato un bambino che viene spesso tenuto in braccio, in un box o che usa un girello. Per questo motivo si consiglia di abituare il bambino fin da piccolissimo a stare per molto tempo libero sul pavimento.
Il gattonamento può essere posticipato a 12-13 mesi di vita senza che questo configuri una condizione di anormalità, ed è importante ricordare che non tutti i bambini passano per questa fase, ma alcuni imparano direttamente la stazione eretta e a muovere i primi passi senza passare per l’andatura a 4 zampe e senza che questo abbia un significato patologico.
Non dobbiamo aiutare il piccolo a gattonare, quanto piuttosto lo dobbiamo incentivare alla sperimentazione, aiutarlo a provare il passaggio dalla stazione seduta a quella eretta, per una corretta acquisizione di una sequenza di passaggi posturali. Sicuramente il gattonare giova al bambino perché lo aiuta a organizzare il movimento, sarà per lui d’aiuto nel momento in cui farà i primi passi, lo aiuterà nello sviluppo dell’equilibrio.
Questo però non significa che coloro che saltano la tappa del gattonamento non raggiungano comunque un ottimo sviluppo motorio e cognitivo. Alcuni bambini saltano infatti questa fase e sperimentano altre modalità di movimento, ad esempio strisciano a pancia in giù, si spostano da seduti aiutandosi con mani e piedi, per poi passare direttamente alla stazione eretta. Il gattonamento non è un pre-requisito per camminare e ogni bambino ha un processo psicomotorio personale.

martedì 21 gennaio 2014

La miopia è ereditaria?


di Paolo Nucci 
Alla base di tutti i difetti refrattivi la componente ereditaria non è trascurabileanche se la penetranza, ovvero la possibilità che il difetto si manifesti, non è del 100% el’espressività, cioè l’entità del difetto, non è sempre comparabile a quella dei genitori.

Un paragone ragionevole è quello della statura, se un genitore è alto 1 e 70 è improbabile che il figlio sia alto 1 e 90, e non tutti i figli potranno avere la stessa altezza.
Sin dal primo giorno di vita è possibile esplorare i difetti di vista di un bambino, anche se nei primi mesi il difetto tenderà ad una ipermetropia e astigmatismo maggiori di quelli che si rileveranno dipoi il secondo anno di vita.
In molti si chiedono se indossare o no gli occhiali incide sull’andamento del difettoE’ un argomento controverso. E’ sicuro che non tutti i difetti vanno corretti, soprattutto quando non influenzano negativamente lo sviluppo della capacità visiva a lungo termine, è certo che una certa ipermetropia è fisiologica nel bambino molto piccolo e che una miopia modesta non è in grado di determinare occhio pigro. 
In generale si può dire che si tende a essere più indulgenti nella correzione dei difetti lievi e simmetrici ma l’innocenza del problema deve essere attentamente valutata da uno specialista esperto.

In alcuni casi è possibile prevedere il peggioramento della miopia, ma non la sua entità, un po’ come la statura.

giovedì 16 gennaio 2014

Iniziare a sciare da piccoli... consigli per i genitori

L'età giusta per iniziare a sciare? Meglio i corsi collettivi o individuali? E l'attrezzatura la compro o la noleggio? Come lo vesto? Ecco tutte le risposte ai dubbi dei genitori che portano i figli a sciare. Perchè lo sci sviluppa l'agilità e insegna ai bambini ad avere fiducia nelle proprie capacità.
Risponde alle domande Armando Calzolari, Responsabile Unità Operativa Complessa di Medicina Cardiorespiratoria e dello Sport dell'Ospedale Bambino Gesù di Roma.

A che età è consigliabile mettere gli sci ai nostri figli? Verso i tre, quattro anni. Diversamente da altri sport, lo sci è infatti un’attività che si può apprendere sin da piccoli.
Perché? Perché il gesto tecnico, anche se complesso, non è basato sulla forza ma piuttosto sulla stabilità. E i bambini sono avvantaggiati dal fatto di avere un baricentro molto basso, che consente loro più stabilità.
Quali sono i benefici dello sci? Dal punto di vista fisico sviluppa l’agilità e la coordinazione neuro-motoria e l’equilibrio. Dal punto di vista caratteriale insegna ad avere fiducia nelle proprie capacità, quindi è un sport particolarmente indicato per i bambini timidi e insicuri. E poi lo sci si pratica in montagna, dove si respira aria pulita e doce si è a stretto contatto con la natura.
Quando è consigliabile cominciare l’attività agonistica?
A 11 anni, come la maggior parte degli sport.
Si può cominciare con i genitori? Se papà o mamma sono davvero bravi sciatori, sì. Altrimenti è sempre meglio un bravo maestro di sci, comunque consigliabile. I bambini più piccoli, solitamente, preferiscono la figura femminile, quindi una maestra. In questo modo si evita di trasmettere ansie e insegnamenti sbagliati.
Meglio i corsi collettivi o individuali? Un maestro privato ha più tempo e più attenzione da dedicare. Ma per i bambini lo sci è e deve essere soprattutto un gioco. In questo senso i corsi collettivi, oltre a costare meno, risultano più divertenti, poiché i bambini stanno fra di loro.
Ma la lezione dura una o due ore: e poi? I bambini non devono sfruttare al massimo la giornata sugli sci, come gli adulti. Soffrono il freddo di più e si annoiano prima. Per questo è meglio scegliere giornate soleggiate e assecondare i loro desideri. Se si stancano, meglio toglierli gli sci e fargli costruire un pupazzo di neve. O magari portarli al bar davanti a una cioccolata calda fumante. Così imparano ad apprezzare anche tutto il contorno di una giornata sulla neve.
Quando i papà e le mamme possono sciare con i loro figli? Quando i piccoli incominciano a scendere dalle prime piste, e a usare senza troppa difficoltà la seggiovia o lo skilift, è il momento ideale. Ma attenzione alla scelta della pista: quella che a noi sembra pianeggiante e facile, potrebbe non esserlo per loro. È fondamentale che non si spaventino. Se non si è molto bravi, meglio non avere la pretesa di insegnare niente di tecnico, limitarsi a dare sicurezza accompagnandoli.
E gli sciatori più grandicelli, tra gli otto e i dieci anni? Il maestro è sempre consigliabile, anche perché è l'età in cui possono incominciare a capire le prime nozioni tecniche e perfezionare la sciata. Finita la lezione si può gradualmente concedere loro un po' di libertà: non è necessario stare sempre con loro, magari li si può seguire da lontano. In fondo il bello dello sci è proprio la sensazione di libertà che sa regalare.Ai nostri figli vanno impartite le regole essenziali: essere prudenti sulle piste, non andare troppo veloci o avventurarsi fuoripista, fare molta attenzione agli altri sciatori e non fermarsi mai in mezzo alla pista. Poi li si può lasciare liberi, in compagnia dei fratelli o di altri amichetti, magari con un appuntamento ogni tanto in un punto convenuto. Per loro sarà una vera gioia.

Attrezzatura: meglio acquistare o noleggiare? 
Sci e scarponi sono un acquisto economicamente importante. E con la rapida crescita dei bambini, si rischia di non sfruttarlo appieno. L'acquisto conviene a chi:

  • è sicuro che lo sci piaccia ai propri figli;
  • sa di passare molte giornate a stagione sulla neve (più di dieci/quindici);
  • ha un fratello/sorella più piccoli a cui passare l'attrezzatura;
  • frequenta stazioni sciistiche minori dove è difficile trovare materiali moderni o della misura giusta;
  • sa di poter rivendere (attravero alcuni negozi che offrono il servizio, oppure con mercatini dell'usato, annunci eccetera) attrezzi che dopo una o due stagioni saranno quasi come nuovi.

Come scegliere l'attrezzatura? Gli sci devono essere adatti al livello tecnico. Non prendere sci “da gara” per un bambino di 8-10 ani se non sa sciare già piuttosto bene, magari perché li possiede qualche suo amico. Gli renderebbero la vita difficile. Esiste un'ampia scelta di sci junior o baby, pensati per varie capacità dello sciatore. Farsi consigliare da personale preparato. Per la lunghezza, uno sci corto facilita l'apprendimento, quindi evitare di esagerare in lunghezza per fare magari una stagione in più, complicando però la vita al bambino nel primo anno di utilizzo.Stesso discorso per lo scarpone. Deve essere giusto, non fare male, ma bloccare bene il piede, con tre/quattro ganci. Prendere un numero troppo grande, con l'idea di mettere magari le calze doppie il primo anno, è un concetto che non si addice allo sci. Si usa una calza sola, meglio se specifica da sci e il numero deve essere al massimo di mezza misura più grande. Per i principianti, meglio scarponi più morbidi.
I bastoncini, che devono anch'essi essere della misura corretta. Costano relativamente poco, ed esistono anche (più costosi), regolabili in altezza.
Il casco è obbligatorio? Sì, fino ai 14 anni e deve essere omologato per lo sci/snowboard. Nella scelta badare che si adatti bene, non sia troppo grande (ballerebbe sulla testa cn rischio di essere scalzato in caso di caduta) o troppo stretto (fa male dopo un po' che lo si indossa). Deve diventare un'abitudine indossarlo e se i genitori sciano, sarebbe meglio lo avessero anche loro per dare il buon esempio. Oltretutto tiene le orecchie e la testa al caldo. Esistono anche caschi regolabili nella taglia.
Come è meglio vestirli? L'ideale è la vestizione a strati. Il primo strato, a contatto della pelle, è meglio non sia in cotone, perché trattiene l'umidità del sudore. Esistono i cosiddetti capi tecnici (venduti nei negozi sportivi, anche specifici per lo sci), che asciugano alla svelta e mantengono il calore, altrimenti anche la lana va bene. Sopra alla maglia intima indossare una maglia leggera, meglio se a collo alto, in micropile o lana.Al di sopra di questa è perfetto un pile. Per le gambe basta una calzamaglia, con o senza piedi, in tessuto tecnico o lana. Per i piedi, un solo paio di calze in lana, meglio se apposite per lo sci.I guanti devono assolutamente essere di qualità, impermeabili e caldi. Mai sciare senza, nemmeno nelle belle giornate primaverili: cadere sulla neve a mani nude può fare molto male. Infine lo strato esterno: ottime le tute intere per i cuccioli, adatte anche per rotolarsi sulla neve prima e dopo lo sci. Per i più grandicelli, giacca e pantaloni impermeabili e traspiranti, imbottiti, sono più pratici.

martedì 14 gennaio 2014

Le felicità si eredita


Affrontare la vita con un sorriso non è solo un modo di dire, ma è anche genetica.
Vi piacerebbe vedere i vostri figli sempre sorridenti, ottimisti, positivi?
Un modo c’è: dovete esserlo voi prima di tutti.
Proprio così. Un nuovo studio, pubblicato su ‘Bioscience Hypotheses’, suggerisce infatti che i sentimenti e gli umori che proviamo nel corso della vita possono influenzare i nostri figli, fin da prima della nascita.
In particolare, secondo Alberto Halabe Bucay del Research Center Halabe and Darwich in Messico, un vasto gruppo di sostanze chimiche – generate nel cervello in seguito a differenti disposizioni d’animo – possono influire su ovuli e sperma, cellule all’origine della generazione successiva.
Nel suo articolo, il ricercatore suggerisce che gli ormoni e le sostanze chimiche ‘figlie’ di felicità, depressione e altri stati mentali possono lasciare il segno sulle cellule germinali, dando luogo a modificazioni proprio nel momento del concepimento.
Sostanze chimiche prodotte nel cervello come le endorfinea sono note per avere significativi effetti su spermatozoi e ovociti, alterando la struttura dei geni che sono attivi in queste cellule. 
“Naturalmente è noto che il comportamento dei genitori influenza i bambini, e che i geni che un bambino riceve da mamma e papà contribuiscono a formare il suo carattere”, ha spiegato Halabe Bucay. “Il mio studio – ha aggiunto – suggerisce una via attraverso la quale la psicologia dei genitori prima del concepimento può effettivamente incidere sui geni del bambino“.
Si tratta di una “idea intrigante”, ha commentato William Bains, editore della rivista. “Abbiamo voluto pubblicarla – ha aggiunto – per vedere cosa ne pensano gli altri scienziati, e se altri ricercatori hanno dati che potrebbero sostenerla o smentirla”. Insomma, stimolare il dibattito sulle nuove idee.
Nel dubbio, siate felici! 

giovedì 9 gennaio 2014

5 falsi miti sulle mamme che lavorano

Oggi proveremo a svecchiare un po' alcune di queste convinzioni.

1 Più lavoro, meno figli potrò avere FALSO

20 anni fa questa correlazione era corretta, cioè il tasso di occupazione femminile – niente di più che la percentuale di donne al lavoro – era inversamente proporzionale al tasso di natalità, ovvero al numero medio di figli per donna.
E’ rimasta questa convinzione, ma i numeri sono cambiati! Ora le donne che lavorano sono anche quelle che hanno più figli.



2 Mia mamma ha fatto la casalinga tutta la vita e non abbiamo avuto problemi economici FALSO (OGGI)

Se in passato il modello familiare monoreddito, cioè con una persona sola in famiglia che lavorava, ha funzionato ora – purtroppo o per fortuna – non è più così. In sociologia si definiva il “male bread-winner” ovvero l’uomo che porta a casa la pagnotta. Gli ultimi dati Istat ci dicono che la disoccupazione ha colpito anche i lavori un tempo “sicuri”, quelli a tempo indeterminato dove stavi una vita nella stessa azienda, crescendo al suo interno.
E che in un numero sempre maggiore di famiglie è la donna – per scelta o per necessità, dopo che il partner ha perso il lavoro - a portare a casa una parte significativa dello stipendio o, se non lavorava, a rimettersi attivamente alla ricerca di un lavoro.

3 Costa di più lavorare e mandarlo al nido che stare a casa FALSO

Prima di tutto c’è un vizio all’origine del calcolo. Perché quasi mai si include lo stipendio del marito, che pure è parte diretta in causa?
Poi il calcolo non può essere fatto solo per i primi tre anni del nido, perché il costo – oggettivamente alto – si compensa con la semi-gratuità della materna e delle elementari.
Mentre se una neo-mamma esce dal mercato del lavoro oggi e resta fuori per tre anni (fino all’inizio della materna) avrà molte difficoltà a ritrovare un lavoro dopo. In più con il nuovo Isee –  appena varato dal Governo – sarà più semplice per chi davvero ha un lavoro e dei figli richiedere agevolazioni.
Ricerche recenti dimostrano infine che non solo la presenza di due redditi in famiglia riduce la vulnerabilità nei confronti di rischi occupazionali e familiari (disoccupazione, divorzio), ma riduce anche il rischio di povertà della famiglia e dei minori, che è in netta crescita in molti paesi europei (Studio realizzato nel 2007 da Cavalcanti e Tavares, e aggiornato nel 2010 dalla Professoressa Daniela Del Boca).

4 I figli al nido stanno peggio FALSO

Diverse e recenti ricerche dimostrano ormai che frequentare un asilo nido nei primi tre anni non solo non è traumatico ma aumenta le loro capacità cognitive, e affettive e psicologiche. Purché sia una struttura professionale, e non baby parking o colf.
Eppure in Europa sempre di più si sta studiando e apprezzando l’importanza dell'investimento educativo nei primi anni di vita, che come ha dimostrato il premio Nobel per l'economia James Hackman, diminuiscono con il crescere dell'età.

5 I papà non si curano dei figli FALSO

L’Istat ha più volte fotografato la fatica delle donne italiane che tra le mura domestiche si sobbarcano il 70% del lavoro tra pulizie, stiro e figli.
Ma questo peso si alleggerisce se ha un’attività fuori casa (dal 73,4% al 71,4% del totale delle faccende domestiche).
Anche un altro studio ha illustrato bene come l’uso del tempo all’interno di una famiglia è molto meno “sbilanciato” se anche la donna lavora: numeri alla mano, c’è infatti una correlazione positiva tra attività professionale della donna, e relativo stipendio, e impegno maschile in casa.

Come dire: impariamo a delegare e ritagliarci anche noi una vita fuori dalle mura domestiche.